Il paesaggio del Sulcis Iglesiente e la sua storia



Pur in una terra ricca di bellezze paesaggistiche come quella italiana, non è facile trovare una regione dove il paesaggio rappresenti l’elemento dominante del territorio, il carattere che più lo distingue non solo per eventi puntuali, ma ne formi la struttura stessa, l’intima essenza percepibile anche dal visitatore poco attento all’ambiente che sta attraversando. Questa, in realtà, è una condizione non rara in Sardegna, ma nella parte meridionale dell’Isola essa sembra costituire la norma: percorrendo il Sulcis-Iglesiente, per chilometri e chilometri appare inequivocabile come il paesaggio, in luogo di rappresentare una semplice e parziale espressione del territorio, sia in realtà fuso con esso; è come se paesaggio e territorio costituissero due aspetti di pari livello di una stessa entità. In questo forse consiste il valore del paesaggio della Sardegna meridionale, e senz’altro qui risiede la sua fragilità: qualunque modifica, anche minima, del territorio si trasmette inevitabilmente al paesaggio arrivando, in potenza, a intaccarne le peculiarità.

Quattro sono le sensazioni che il paesaggio/territorio del Sulcis-Iglesiente trasmette all’intuito del viandante. In primo luogo un senso di vastità, di grandi spazi, di estensioni senza soluzioni di continuità. E’ una immagine che si spiega con l’assenza di limiti fisici alla vista, se non nell’orizzonte, spesso costituito a sua volta da altri spazi a perdita d’occhio; una condizione senz’altro accentuata dalla mancanza, o dalla bassa frequenza, di elementi di semplice disturbo, come tralicci elettrici o altre strutture verticali. La vastità, associata ai profili arrotondati dei rilievi e alle superfici piane delle valli, porta all’idea di una terra antica, soggetta da tempo immemorabile al modellamento di forze erosive ne hanno spianato e smussato le forme. Cosi è, in effetti, nella realtà, come dimostra la storia geologica e l’evoluzione geomorfologica di questi luoghi. Ma a una generale dolcezza delle forme fa contrasto una netta suddivisione delle componenti macroscopiche del paesaggio: le pianure e i rilievi. Questi due elementi si alternano nel territorio apparentemente come corpi a sé stanti, spesso separati da un limite ben marcato, non una fascia, non una zona che potremmo definire pedemontana o collinare, ma una linea che corre lungo i loro margini dove il profilo del terreno da orizzontale nella pianura si innalza bruscamente nei ripidi pendii dei rilievi. Una separazione che ha influenzato l’occupazione del territorio da parte dell’uomo, e risulta a sua volta accentuata dal contrasto tra l’uso agricolo della pianura e le superfici boscose dei rilievi. Il quarto carattere del paesaggio di questa regione è la costante presenza del mare. Se ciò risulta scontato per la aree costiere, in realtà il mare è visibile anche da molte zone dell’entroterra, senz’altro dai rilevi maggiori, ma spesso è sufficiente sopraelevarsi leggermente sulla pianura per percepirne la presenza all’orizzonte. E’ il carattere di insularità della Sardegna che emerge di continuo anche nelle terre più interne, un fattore che qui ha determinato gran parte della storia dell’uomo.
Volendo dare un significato a queste sensazioni, è necessario addentrarsi nella storia del paesaggio. Una storia che ha origini molto antiche. La quasi totalità dei rilievi raggruppati nel massiccio montuoso del Sulcis, che fa capo a cime come Is Caravaius, Punta Sebera, Monte Nieddu, Monte Arcosu, ecc., e in quello dell’Iglesiente, con le cime del gruppo Monte Linas-Oridda-Marganai, sono costituiti da rocce che formano il basamento della Sardegna paleozoica, risalente a 550-300 milioni di anni fa. Questi rilievi sono ciò che resta di una catena montuosa sottoposta per diverse centinaia di milioni di anni alle forze erosive e frammentata in più parti dall’evoluzione tettonica dell’area. E’ a questo smembramento tettonico che si deve la creazione, tra le zone rilevate, di fosse di sprofondamento in cui si sono accumulati depositi sia marini sia continentali, e che ora costituiscono le grandi pianure della regione, dalla Valle del Rio Cixerri, fin’oltre Carbonia, alla valle del Rio Mannu e alla sua estensione nella zona costiera da Palmas fino a Porto Pino. Tra 30 e 14 milioni di anni fa, attività vulcaniche connesse con la formazione delle fosse tettoniche hanno poi dato origine sia ai rilievi dalla caratteristica sommità tabulare, come Monte Narcao e le altre praneddas di Villaperuccio, sia al massiccio di Monte Arcuentu, nel Guspinese. In questo periodo ebbero luogo anche i grandi espandimenti magmatici che ora costituiscono gran parte delle isole di S. Antioco e di S. Pietro. Su questa complessa struttura geologica la morfogenesi ha agito incessantemente, addolcendo le linee, uniformando i contorni, ma anche accentuando le differenze tra rocce di natura diversa, fino a modellare il territorio come ora ci appare. L’impressione visiva che si trae dal contrasto tra le pianure e i rilievi dell’entroterra, è che questi emergano come isole in una sorta di “mare planiziale”. Nelle isole reali, invece, soprattutto a S. Pietro, la superficie piana o lievemente ondulata traduce bene lo scorrere lento del fluido magmatico che le ha generate. Lungo la costa il paesaggio mostra con maggior enfasi il lavorìo dei processi morfogenetici, offrendo un’elevata varietà di ambienti, funzione anche di eventi a carattere locale. E’ il caso delle formazioni di dune lungo i litorali di Porto Pino, Fontanamare, Portixeddu e Piscinas, accumuli di origine eolica, tra i più alti ed estesi d’Europa, spesso sorti su formazioni analoghe ormai cementate in solida roccia risalenti a centinaia di migliaia di anni fa. In corrispondenza delle maggiori zone di sprofondamento tettonico (Porto Pino e Porto Botte), il litorale ha formato lunghe strisce sabbiose (tomboli) che delimitano un sistema di stagni costieri in comunicazione più o meno aperta con il mare.  Nelle coste rocciose il paesaggio è il risultato di altre forme di modellamento. Tutta la zona tra Capo Spartivento e Porto Teulada costituisce un classico esempio di costa a rias, dove il mare è penetrato in valli fluviali formate in epoche passate, quando il livello marino era più basso dell’attuale. É una condizione morfologica riscontrabile anche nella costa occidentale, ed in particolare è all’origine della profonda insenatura di Cala Domestica. Più diffusa è la costa a falesia, scarpata formata dall’erosione marina che determina il crollo della roccia affiorante e il progressivo arretramento della linea di costa. Questa morfologia dà origine ai più spettacolari paesaggi costieri dell’intera regione: dalla strapiombante falesia di Capo Teulada, a gran parte della costa delle isole di S. Antioco e di S. Pietro, dalle falesie di Capo Altano e di Porto Paglia, fino all’impressionante falesia di Schina ‘e Monte Nai e al suo prolungamento nell’isolotto del Pan di Zucchero, nella costa di Masua. Su questo territorio così marcato dall’impronta geologica e dalla morfogenesi che ne è seguita, agli albori della civiltà la vegetazione, libera di prosperare, presentava una distribuzione legata essenzialmente alle condizioni di temperatura e umidità, funzione a loro volta dell’altitudine e della distanza dal mare. La fascia costiera ospitava ovviamente associazioni vegetali ben adattate a un clima caldo e arido. Tra queste, oltre alla tipica macchia mediterranea con essenze quali il ginepro, il lentisco, la fillirea, il cisto, particolarmente sviluppata doveva essere la pineta a Pino d’Aleppo, specie tipica del luogo, presente sia nelle zone retrodunali dei litorali sabbiosi sia lungo le coste rocciose. Sembra accertato che questo tipo di pineta si estendesse senza soluzione di continuità anche sulle isole di S. Antioco e S.Pietro formando una copertura boschiva difficilmente immaginabile ai giorni nostri. Anche tutto l’entroterra era ricoperto da immense foreste. Leccete e sugherete in popolamenti puri o in associazione con altre specie, si estendevano dalle pianure fino alle zone montane, per diradarsi in corrispondenza di versanti e scarpate rocciose pressoché prive di suolo. Solo nelle sommità dei rilievi più alti la vegetazione passava infine a scarne coperture erbaceo-arbustive.  E’ su questo paesaggio ancestrale che l’uomo ha impresso la sua presenza apportandovi modifiche fin dall’antichità. Poiché le popolazioni neolitiche, seppur diffusamente presenti nell’area, non dovevano costituire insediamenti particolarmente sviluppati, ad eccezione della zona di Villaperuccio, è verosimile che il primo tangibile impatto dell’uomo sul paesaggio risalga all’epoca nuragica, iniziata circa 3800 anni fa.  Le popolazioni nuragiche si insediarono praticamente su tutta la regione, isole comprese. Villaggi nuragici di una certa importanza si trovano un po’ ovunque in pianura ma non mancano insediamenti importanti anche sui versanti di molti rilievi dove, in qualche caso, i nuraghi sono disposti a formare vere e proprie linee difensive a protezione di valli e corsi d’acqua. L’attività agro-pastorale e la necessità di legname dei nuragici devono aver in qualche misura inciso sulla copertura boschiva all’intorno delle zone abitate, con la creazione di coltivi e aree adibite al pascolo. Fu con l’arrivo dei Fenici , intorno al IX-VIII secolo a.C. sec, e soprattutto dei Punici (VI sec. a.C.) che il paesaggio subì i primi, seri mutamenti. E’ verosimile supporre che proprio i punici produssero i primi estesi disboscamenti nelle pianure della regione. Di certo le numerose fortezze costruite sulle sommità dei rilievi tabulari come Monte Sirai, Pani Loriga, Corona Arrubia e gli insediamenti costieri dell’importanza di Sulci, Bithia, Nora devono avere avuto un ruolo importante nel paesaggio dell’epoca; ma anche l’entroterra montano doveva in più punti a mostrare la presenza umana grazie a numerosi santuari (Antas, Matzanni, Terraseo), peraltro spesso costruiti in corrispondenza di precedenti insediamenti nuragici. Particolarmente evidenti dovevano risultare le numerose cave di pietra aperte nelle arenarie eoliche di Porto Pino e Capo Malfatano. Proprio in quest’ultima zona vi era il più significativo intervento umano dell’epoca, il presunto porto punico di Melquart, le cui vestigia giacciono ora sommerse dal mare. Ai Punici si devono probabilmente anche i primi segni visibili dell’attività mineraria, che tanto avrebbe inciso sul paesaggio nei millenni a venire. Un ulteriore, forte, impulso verso l’antropizzazione del territorio venne poi da Romani. Sulla base dell’impianto ereditato dai Punici, i Romani svilupparono molto l’attività agricola nelle zone planiziali. Sorsero numerosi piccoli abitati rurali e si realizzò un’importante rete stradale tra i principali centri urbani e le regioni centrali della Sardegna. In pianura, il bosco aveva ormai lasciato molto spazio alle coltivazioni ma anche in montagna la copertura boschiva cominciò a risentire pesantemente dell’attività mineraria. E’ all’escavazione della galena, da cui si estrae piombo argentifero, che si deve il primo grosso insediamento nelle zone montane: si tratta di Metalla, mitica città mineraria fondata dai Romani sulle montagne tra Iglesias e Buggerru. Come ovunque in Italia, anche qui la caduta dell’Impero segnò l’inizio una fase buia per la comunità umana, cui corrispose un parziale ripristino dell’assetto naturale del territorio. In epoca medievale, sotto il dominio bizantino seguito alla cacciata dei Vandali, si registrò un generale spopolamento, soprattutto del territorio insulare. La popolosa città di Sulci si ridusse a poche case e si registrò l’abbandono anche di molte aree dell’entroterra. Sia le estese coltivazioni della pianura che le aree minerarie in montagna furono invase dalla boscaglia e nel paesaggio, tornato in parte al suo aspetto naturale, si riconoscevano numerose le vestigia, ormai ridotte a ruderi, degli antichi colonizzatori. Fu dopo l’anno Mille che soprattutto nelle parti più interne delle valli si iniziarono a organizzare piccoli insediamenti rurali grazie all’opera dei monaci benedettini a cui si deve la realizzazione di numerose chiesette rurali, alcune delle quali ancora presenti nei territori di Nuxis e Narcao. Anche sulla costa si registrò una certa ripresa dell’attività umana, testimoniata dallo sviluppo di Tratalias e dalla presenza nelle sue vicinanze del castello giudicale di Tului, ora completamente scomparso. In entrambi i casi tuttavia si trattò di eventi temporanei e già nel XIII secolo, con l’arrivo dei Pisani, il baricentro della presenza umana si spostò nella Valle del Cixerri, più vicina ai giacimenti minerari dell’Iglesiente. Sotto il dominio pisano, Iglesias, allora chiamata Villa di Chiesa, divenne un centro urbano di grande importanza, l’unico da cui per quasi un millennio sarebbero dipese le sorti delle popolazioni dell’intera regione. I Pisani, attratti dalle ricchezze minerarie della zona, misero nuovamente mano alla scure con conseguenze immaginabili per i boschi montani, ma operarono con decisione anche sul paesaggio di pianura, realizzando su erti pinnacoli vulcanici i castelli di Gioiosa Guardia e di Acquafredda, le cui forme inconfondibili dominano ancora oggi la sottostante piana del Cixerri. Nel 1323 la regione passò sotto il dominio degli Aragonesi. Fu un evento cui seguì un’involuzione dello sviluppo dell’attività umana che portò a un nuovo spopolamento, sopratutto nelle aree costiere e nelle valli più esposte all’attacco dei pirati. Per nulla interessati allo sfruttamento minerario, i nuovi occupanti si limitarono al controllo del territorio cercando di trarne il massimo profitto vessando le popolazioni locali con l’instaurazione di un pesante regime feudale. A loro si deve tuttavia la costruzione delle prime torri costiere di difesa, strutture poi riprese e diffuse su tutta la costa nel ‘500, sotto il dominio della Corona di Spagna. Con il XVI secolo iniziò una fase di incremento demografico i cui effetti sul territorio si protrassero così a lungo nel tempo da costituire l’impianto del paesaggio attuale in molte zone rurali. Con lo scopo di favorire l’utilizzo delle terre abbandonate, l’amministrazione spagnola dette la possibilità a pastori transumanti di costruire nelle zone prossime ai pascoli piccoli insediamenti di capanne ad uso temporaneo, detti furriadroxius (dal sardo furriai cioè ritornare). Nel XVIII secolo, la politica di colonizzazione voluta dai Savoia, a cui il Regno di Sardegna pervenne nel 1718 grazie al Trattato di Londra, permise di trasformare i furriadroxius in dimore stabili favorendo così lo sviluppo dell’attività agricola. In diversi casi i furriadroxius assunsero dimensioni tali da formare piccoli centri abitati (boddeus) da alcuni dei quali sarebbero poi sorti molti degli attuali paesi del Sulcis.  Nell’assetto del paesaggio rurale dell’epoca doveva emergere chiaramente anche la consuetudine secolare che portava a fare una netta distinzione tra le aree a adibite a coltivo e a pascolo del bestiame impiegato nel lavoro dei campi, chiamate habitaciones per la vicinanza alle zone abitate, e il bosco, detto saltus, dove far pascolare il bestiame allo stato brado e da cui trarre legname; le attività del saltus erano regolate da diritti d’uso comunitari detti ademprivi che favorivano lo sfruttamento oculato del patrimonio boschivo. Ma il ‘700 non fu determinate solo per il paesaggio agrario: è in questo secolo infatti che ha inizio lo sfruttamento industriale delle miniere dell’Iglesiente, con conseguenze enormi sul territorio, e non solo su quello montano. Tre furono gli effetti più significativi sul piano paesaggistico: la movimentazione di enormi volumi di roccia, con la creazione dei vuoti di miniera, da una parte, e delle discariche di detrito, dall’altra; gli estesi disboscamenti prodotti dalla forte richiesta di legname; e infine la costruzione di infrastrutture connesse con l’attività mineraria, dalle dimore dei minatori, spesso veri e propri villaggi (Buggerru e Ingurtosu tra i maggiori), alle laverie per l’arricchimento del minerale, dalla rete viaria, ai punti di stoccaggio e imbarco del minerale per la sua spedizione via mare. Per ben due secoli tutto l’Iglesiente e parte delle montagne del Sulcis si trasformarono in un enorme cantiere, un mondo tecnologico, economico, politico e culturale che gravitava attorno a Iglesias, centro urbano ormai sviluppato, cuore di uno dei distretti minerari più importanti d’Europa. Nella seconda metà del XIX secolo l’attività mineraria si estese nella pianura sulcitana con l’apertura delle miniere di carbone di Bacu Abis, a cui seguì la costruzione della centrale elettrica a carbone di Portovesme, nucleo storico dell’attuale polo industriale, e quindi, nel 1938, la nascita di Carbonia, città mineraria sorta vicino al giacimento carbonifero di Serbariu. La spinta modernistica dell’amministrazione sabauda portò anche allo sfruttamento dei boschi su scala industriale. Nell‘800 il governo abolì gli ademprivi e concesse l’uso dei boschi a privati che operarono in modo così intensivo da sconvolgere la superficie boschiva di intere montagne. Per citare solo un esempio, tra il 1874 e il 1920 una società francese sfruttò le foreste di Pantaleo e di Gutturu Mannu, un’estensione boschiva di circa 10.000 ettari nei monti del Sulcis, per produrre carbone, catrame, alcool metilico, acetone e acido acetico. Le dimensioni dell’attività furono tali da giustificare la costruzione di due linee ferroviarie per il trasporto del prodotto ai punti d’imbarco, situati uno a Porto Botte e l’altro nel Golfo di Cagliari. Solo a partire nella seconda metà del XX secolo, con l’arresto dell’attività mineraria e grazie a una politica di ripristino delle superfici boschive, il paesaggio si avviò gradualmente ad assumere l’aspetto attuale. La principale componente antropica del paesaggio è tornata ad essere la superficie agricola delle pianure ma nella fascia costiera sono ormai evidenti gli effetti, non sempre accettabili, della nuova vocazione industriale della regione: il turismo. Improntato sul classico utilizzo balneare, lo sviluppo turistico attuale si basa sostanzialmente su un unico bene, la spiaggia, una visione molto limitata delle potenzialità offerte dalle componenti naturali e storiche del territorio. In realtà il territorio/paesaggio del Sucis-Iglesiente ha senz’altro le caratteristiche per costituire l’eccezionale volano di un turismo sostenibile che, a differenza delle passate esperienze industriali, se gestito con oculatezza e lungimiranza, potrebbe non esaurirsi mai.

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